C'è ancora spazio per la crescita? (Gruppo Ancona)

Premessa

Vivendo in un ambiente finito è evidente che non possiamo consumare all’infinito: iniziano a scarseggiare molte risorse e non tutte sono sostituibili; mentre potremmo riuscire a trovare dei sostituti per il petrolio, il rame, il litio, ecc, ci sono elementi dei quali non possiamo fare a meno: l’acqua è la principale risorsa in esaurimento. Anche le terre fertili stanno ormai diventando un problema mondiale, in parte per la cementificazione, in parte per l’impoverimento del suolo dovuto allo sfruttamento intensivo.

Le fonti rinnovabili potrebbero essere una reale opportunità, ma solo se sapremo abbinarle ad un modo di consumare più responsabile. Negli ultimi anni molti degli sforzi fatti per avere una maggiore efficienza energetica sono stati vanificati da sprechi sempre maggiori.

Eppure, nelle nostre riflessioni, benchè importante, non troviamo centrale il problema delle risorse e dello “spazio” fisico della crescita. Certo, se mancheranno acqua e cibo per molti la sopravvivenza sarà l’unico argomento possibile ma chi vive nel mondo “sviluppato” tenderà fino al’ultimo a sperare e combattere perchè non tocchi a sè, ma agli altri.

Analizzando esclusivamente il tema della mancanza delle risorse e, presentandolo quale principale spinta al cambiamento, difficilmente giungeremo ad un nuovo sistema sociale, o alla riduzione delle sperequazioni. Che cambiamento sarebbe, infatti, se governato proprio dalla paura? (che è uno dei collanti principali della “crescita”) O dalla necessità economica?

Cercheremo quindi di sviluppare un altro concetto di “spazio”, quello dell’anima, quello delle scelte individuali, sociali e politiche o, più semplicemente, del “come vogliamo vivere

Se vogliamo provare a porre (o a ri-portare) “l’uomo” sopra il concetto di “economia” e di mercato crediamo sia più corretto prima cercare di far luce su di noi, su come viviamo, sul perchè questo tipo di sistema ha colonizzato tutti gli altri, sul desiderio e sul bisogno del “ben-essere” contrapposto all’insoddisfazione connessa con questo sistema. In altri termini le "relazioni personali" e non o non solo le "relazioni economiche".

Cercheremo a seguire di ricontestualizzare i temi e le domande secondo il percorso che abbiamo scelto.

 

1) Con l’attuale sistema di crescita economica, viene garantito il nostro ben-essere?

E’ certo che oggi nella maggior parte dei Paesi industrializzati (o forse sarebbe più corretto parlare di zone o “aree di sviluppo” in tutto il mondo) ogni individuo ha a disposizione un numero di oggetti fino a poco tempo prima impensabile. Ed è altrettanto innegabile che questo processo è stato accompagnato da un miglioramento delle condizioni e delle aspettative di vita, dalla riduzione della fame e delle malattie, dalla creazione di strumenti per la riduzione del lavoro manuale e della fatica. Eppure, se la crescita della produzione, delle merci e del consumo ci ha portato nel corso del tempo ad un bene-stare evidente, molti segnali evidenziano che questo non basta, anzi, pare che dopo un certo livello con l’aumentare della “crescita” si inverta il rapporto felicità–beni materiali.

L’ultimo rapporto dell’Osservatorio Nazionale della Salute (1) certifica come in Italia, dal 2000 al 2008 il consumo di farmaci anti-depressivi sia triplicato. Considerando naturalmente che la diagnosi migliora con il passare degli anni, il numero è comunque impressionante, anche se lo si mette a paragone dell’aumento contenuto degli altri farmaci.
Il mondo contemporaneo pare incidere sempre di più sulla nostra insoddisfazione se ci sono medici che si spingono a considerare questa “la società della depressione” (2).
E nel resto del mondo industrializzato pare che le cose non vadano meglio, almeno a giudicare dall’aumento delle persone colpite da depressione (nel 2020 secondo l’OMS sarà la seconda causa di incapacità) (3).

Paolo Inghilleri, nel suo “La buona vita” elenca una nutrita serie di ricerche, soprattutto da parte di psicologi americani, che sembrano convergere verso conclusioni comuni.
Certo la felicità sembra essere più bassa tra chi è molto povero, ma a livelli di reddito sufficienti, il denaro non sembra comportare un grado di soddisfazione elevato per la propria vita. Nei paesi ricchi, il benessere soggettivo è fortemente correlato con la stabilità politica e la fiducia nelle relazioni interpersonali.
Myers nel suo “Il paradosso americano...” rileva come in America nell’ultimo secolo siano drasticamente migliorati vari indici: lavoro minorile, aspettative di vita, scolarizzazione, opportunità e diritti di accesso per le minoranze, reddito procapite (da 9.000 dollari nel 1957 ai 20.000 nel 2000)… eppure a partire dagli anni Sessanta compare una “recessione sociale” esemplificata dal triplicarsi dei suicidi negli adolescenti, il quadruplicarsi degli episodi di violenza, il quintuplicarsi della popolazione carceraria.
Ancora ricerche, se ce ne fosse bisogno: Nesse e Williams (1994) comparando 39.000 casi nei cinque continenti mostrano che il tasso di depressione tende ad aumentare in modo parallelo ai processi di modernizzazione e che l’incidenza di questa malattia è maggiore nei paesi economicamente sviluppati.

Siamo di fronte ad un processo per cui studiamo, lavoriamo, impegniamo noi stessi e le nostre intere vite in uno sforzo di possesso e consumo che, invece di rafforzarci, ci fa sentire imperfetti, insoddisfatti, mancanti di qualcosa d’importante. Insomma, ”Perché” come scrisse lo psicologo positivista Mihaly Csikszentmihalyi nel 1999: “se siamo così ricchi, non siamo felici?”

Stiamo chiaramente cercando di dimostrare che con l’aumentare della crescita non c’è più “spazio” per l’anima, e il ben-essere diminuisce. Che non c’è equazione tra oggetto e felicità, al contrario, proviamo ad insinuare il dubbio che, senza una continua crescita economica, potremmo vivere meglio.

 

2) Quali sono gli aspetti principali, individuali e sociali, di un sistema basato sulla crescita?

Lavoro e Tempo

Forse esagerando, molti di noi chiamano “trauma” il rientro dalle ferie e probabilmente tutti abbiamo provato questa esperienza. Chiaramente possiamo distaccarci temporaneamente da ogni cosa, per distrarci, per riposare, ma definire “traumatico” il rientro dopo un’esperienza di “umanità”, scollegati dal lavoro e dalla città, e forzati al sé e alle relazioni non precostituite rende bene l’idea di come viviamo per circa 11 mesi l’anno.

Certo, nei paesi industrializzati non siamo trattati come l’operaia indonesiana che fabbrica le nostre scarpe da tennis, o come l’operaio manifatturiero nella Londra del XXIX secolo , ma se allarghiamo lo sguardo, tra lavoro salariato, pendolarismo, acquisto di alimenti, lavori domestici e cura dei figli, un cittadino americano “spende” 11 e più ore della sua giornata (4), roba da contadina giavanese, o da farsi prendere in giro da (quasi) qualunque altro lavoratore delle epoche precedenti (nelle società più semplici il totale delle ore spese per le operazioni di cui sopra variava tra le 6 e le 8 ore).
Se immaginiamo poi che molto spesso, nel nostro “sistema”, è difficile fare un lavoro che ci piaccia, o per cui abbiamo studiato, dobbiamo concludere che passiamo quasi il 70% delle ore disponibili in un giorno a fare qualcosa per cui siamo costretti, e lo facciamo per tutto il resto della nostra vita…

Un capitolo a parte meriterebbe l’efficienza – sempre più marcata – che ci identifica più con la struttura aziendale che non con gli altri esseri umani che ne fanno parte (disincentivando la collaborazione). E che dire della specializzazione del lavoro – che aumenta con l’aumentare della crescita - che ci isola sempre più da ciò che produciamo gettandoci nel nulla della catena di montaggio.
Eppure ci pare utile concentrarci sulla difficoltà di eseguire compiti in costrizione a cui si somma la riduzione dello spazio per sè, per la propria creatività, per le relazioni interpersonali e il nostro essere sociale che, non essendo monetizzabile, non è produttivo; la condivisione e il “pubblico” non generano “crescita economica” e quindi vengono necessariamente ridotti dal sistema di vita che stiamo scegliendo.

(L’eventuale) tempo libero viene così convertito in “passa-tempo”, in divertimento sempre più “privato”, che possiamo quantificare, prezzare, e tradurre in merce, tanto da non essere più capaci di immaginare altra possibilità di uscita dal lavoro e dalla casa (sempre più isolata) se non spendendo denaro. Ma quanto più comprimiamo il nostro essere individuale e sociale, la nostra voglia e capacità relazionale e creativa, il bisogno di essere uomini, tanto più generiamo società insoddisfatte, represse e depresse e, in ultima analisi... pericolose, violente e insicure.

Etica ed Estetica

Luigi Zoja (5) tratteggia magnificamente questa associazione apparentemente dimenticata, come l’apparentamento di Giustizia e Bellezza. I Greci infatti non distinguevano tra questi due caratteri, ma bellezza e rettitudine erano una cosa sola, due facce della stessa qualità, entrambe necessarie.
Benchè nelle aree sviluppate del Pianeta la mancanza di cibo al momento non pare un problema, se “spostiamo l’attenzione dal nutrimento per il corpo a quello per lo spirito” prosegue Zoja, “osserviamo una denutrizione oramai cronica: quella che riguarda la bellezza. Si tratta di una carestia senza precedenti”.
Con l’aumentare della “crescita” aumenta il divario tra chi può permettersi la bellezza (sempre meno) e una massa sempre più vasta che ne viene esclusa ma “anche fuori dalla folla, quello a cui la maggioranza dei super ricchi aspira (...) non è necessariamente il bello, quanto il lusso: una perversione (...). Il latino luxus vuol dire fuori-posto (...) La bellezza in ogni epoca storica si radicava nella piazza, nel luogo comune: gustarla richiedeva condivisione. Il lusso è, appunto, esclusivo: gustarlo significa suscitare invidia, escludere gli altri. E’ un impoverimento senza precedenti nella storia, che non è affatto compensato dall’avere più oggetti o servizi.

Ogni totalitarismo (così è anche quello economico) tende a sopprimere l’estetica, la bellezza, identificandosi con un’etica giusta e omnicomprensiva che assorbe in sè l’estetica.
D’altra parte, nel nostro essere uomo sociale, vi è una spinta interiore insopprimibile più che all’aspettativa di giustizia, ad una più generale ricerca del bene (fonte di ogni spiritualità), dove giustizia e bellezza sono inscindibili.
Così si crea una rottura sociale e individuale sempre più marcata.
Questa soppressione del bello è naturalmente anche la soppressione del “creativo”, dell’originale e dell’artistico in funzione dell’industriale e del seriale, dell’accesso della massa non al bello, ma al giusto (il prodotto) e non a ciò che possiamo aspirare, realizzare e donare con le nostre mani (il bello)

L’Oggetto e il Desiderio

Chiaramente la minuscola elite che gode (del luxus) di questo sistema, e che ne ha in mano tutti gli strumenti persuasivi (dal controllo formativo – la scuola – a quello informativo – i media, la pubblicità - fino a quello repressivo – le forze dell’ordine) tende ad insegnarci in maniera religiosa e teocratica (assorbendo il carattere estetico in quello etico) che l’attuale modo di vivere è l’unico possibile.
Eppure, più che sulla “pressione” di gruppi di potere, preferiamo concentrarci sui motivi di “attrazione” che il sistema esercita su ciascuno di noi.

La seconda, delle Quattro Nobili Verità del Buddha, recita che “l’origine del dolore è il desiderio”, che la causa prima del dolore nasce dall’attaccamento agli esseri e alle cose.
Certo, non c’è da meravigliarsi come nell’ epoca del consumo questa dottrina assuma un interesse sempre maggiore

Nel Gorgia, un moderno Platone fa dire a Socrate che l’anima di chi è asservito alla passione è come un orcio bucato, che deve essere continuamente riempito con un recipiente anch’esso bucato. La natura del desiderio è tale che esso non potrà mai essere soddisfatto, perchè continuerà a ripresentarsi ciclicamente, in base a bisogni più o meno indotti. Proseguendo il filosofo afferma come il Bene e il Piacere non siano la stessa cosa, sopratutto perchè il piacere ha luogo durante la soddisfazione di un bisogno. Ma il bisogno si manifesta sotto forma di una sofferenza; e il piacere che segue alla sua soddisfazione dura solo finché il bisogno viene soddisfatto, cioè finché esso convive con la sofferenza dovuta alla deprivazione.

Dalla Grecia ai giorni nostri la letteratura è piena di trattati sul Consumo e sul desiderio o, per dirla ancora con Zoja: “Fino a che punto questa straordinaria produzione di benessere (bene-stare per il nostro gruppo di studio) sia stata pagata con costi umani è probabilmente l’argomento più dibattuto al mondo negli ultimi due secoli”.
Con l’aumentare della “crescita” siamo sempre più indentificati in “consumatori”, non in persone complesse con enormi potenzialità e ricchezze, valori e idee, interessi e storie diverse, ma in individui che esistono e assumono senso (e diritti) solo se “consumano”. E, in quanto tali, in persone sofferenti.
Il nostro transfert si concretizza trascurando il “necessario” (il cui costo deve essere sempre più basso) per valorizzare il “superfluo”, abbandonando la razionalità per l’avidità.
Più che alla schiavitù dell’oggetto, siamo così sottoposti a quella del “desiderio”.

La forza di questo sistema sociale sembra poggiare in due differenti pilastri:

- da una parte la continua promessa della felicità, sempre più corta, sempre più instabile (come gli oggetti, come i desideri, come le nostre mutate personalità), ma che riesce a farci godere dell’acquistare quanto del buttare.
I consumatori della società consumistica”, dice Barman (6) “devono seguire le curiose abitudini degli abitanti di Leonia, una delle città invisibili di Calvino. Quella città, tutti i giorni, rifaceva se stessa (…) “Più che dalle cose di ogni giorno che vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità”.

- il secondo aspetto riguarda la capacità di nascondere l’infelicità generata. Percorriamo ogni giorno un deserto che non notiamo quasi più, anestetizzati dalla sua stessa enormità.
Dobbiamo continuare ad identificarci con qualcosa di diverso da ciò che siamo, incarcerati dalla difficoltà di ammettere la nostra umanità, la grandezza di ciò a cui stiamo rinunciando e la fatica che dovremmo percorrere (ogni giorno sempre maggiore) per mutare questo stato di cose.
Creiamo quindi il vuoto, il nulla assoluto attorno le nostre potenzialità, attorno al diverso da ciò che siamo diventati.
Crediamo con fede all’impossibilità di un’alternativa.

 

 

3) Quali le linee guida generali di intevento, per un cambiamento sociale e di sistema?

Descriviamo di seguito alcuni concetti generali, rimandando lo studio e l’approfondimento ai temi successivi.

Nonostante o forse proprio in relazione alla forte pressione a cui siamo sottoposti “il sistema” dice Chomsky (7) “è molto debole. Sembra forte, ma può essere cambiato molto facilmente” e proprio perchè alla maggior parte delle persone, in realtà, questo “sistema” non piace.

Come abbiamo visto, con l’aumentare dello spazio economico si riduce lo spazio dell’uomo, ma quest’ultimo è un luogo che nonostante i nostri sforzi non possiamo nascondere a lungo, a meno di cancellare chimicamente la nostra coscienza.
Per i motivi sopra citati identifichiamo questo sistema socio-economico come l’unico possibile. Come dar torto, quindi, all’aumento dell’ansia e della depressione se vivo sempre peggio ma sono convinto di non poter cambiare proprio il sistema che mi fa star male?
L’intuizione è quindi quella di immaginare l’intera società come un individuo malato, che si dibatte nell’ansia senza uscita, attuando quella che potremmo chiamare una psico-terapia sociale, seguendo un percorso che può essere cognitivo e comportamentale, contemporaneo su più strade:

- una delle prime difficoltà risiede nel prendere coscienza della “malattia”.
E nella necessità che “Bisogna desiderare di essere liberi” (8)
Saranno successivamente importanti domande del tipo: Riusciamo ancora a "dare fiducia"? Quanto si è disposti a cambiare in favore del gruppo? C'è la consapevolezza della distinzione tra i bisogni reali e quelli indotti dal luogo dove si vive? Si utilizzano le cose o le cose ci rendono "schiavi"? Cosa è veramente necessario? Quante di quelle che consideriamo "sicurezze", lo sono realmente? Non potrebbero essere semplici illusioni momentanee? La "paura" di perderle, non ci permette di essere realmente "liberi". Se il fine di ogni essere umano è la felicità, è pur vero che ognuno può vederla realizzata in situazioni diverse. Come farle "convivere"? Dove termina la possibilità di scelta di una persona e inizia quella di un altro?

- la demolizione di convinzioni erronee (la decolonizzazione dell’immaginario)(8) e il tentativo di far luce su altre possibilità, iniziando timide sperimentazioni, nuove risposte comportamentali, relazionali, sociali. Importante la ricerca della nostra umanità, perseguendo con convinzione una serenità o felicità possibile. Il sistema può essere sbloccato solo dall’azione di gruppi di base che tramite i nuovi mezzi di comunicazione possono interagire tra loro e coalizzarsi per fare intendere la loro voce sulla possibilità di cambiare la logica “consumare di più per produrre di più” con quella “consumare di meno per vivere meglio”.

- sarà importante in questo senso la sperimentanzione di relazioni economiche che tengano sempre conto della “persona” prima che dello “scambio” e andranno analizzate quelle modifiche strutturali e organizzati utili alla condivisione, alla responsabilità e alla partecipazione (il “numero” e la “località”) così come lo studio delle forme di alternativa già messe in atto e le loro criticità, che già rappresentano momenti di transizione.
Nell'immaginare un cambiamento verso un modello diverso bisognerà inoltre considerare che:

1. potremmo immaginare un concetto di moneta diverso dal “denaro” (l’utilizzo del “tempo”?)

2. gran parte della popolazione mondiale non è nella possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali.
Un detto africano dice più o meno così: IO esisto perché NOI esistiamo, dunque "tutti insieme". Ma nella pratica, la comunità locale sarebbe disposta a "prendersi cura" uno dell'altro, tenendo presente che "se TU hai un problema, IO ho un problema, dunque diventa NOSTRO"?

3. il mondo spende un’enorme quantità di “energia” necessaria a produrre beni destinati a essere gettati. In un'ottica di decrescita l'energia liberata dalla mancata nuova produzione, dai costi di smaltimento etc potrebbe essere utilizzata per la produzione di socialità, istruzione, cultura;

4. dovremo porre particolare attenzione alla trasformazione (non alla riduzione) dei posti di lavoro perché, se i beni e il tempo necessario saranno ben distribuiti, potremo lavorare meno ma lavorare tutti; l'utilizzo del tempo liberato sarà una bella sfida dopo anni passati a non aver tempo per approfondire le relazioni;

5. sarà conflittuale l’interazione con la più estesa forma di potere che l'umanità abbia mai conosciuto, cioè le corporation o multinazionali.

Enrico Euli aggiunge l’idea del “gioco”, ovvero la sperimentazione di nuovi sistemi come una sorta di gioco, portato avanti in comune e parallelamente alla vita “normale”. Il cambiamento arriverà quando troveremo più interessante “giocare” che non rimanere infelici nella “normalità”.

 

Riferimenti e Bibliografia:

(1) dal sito dell’Osservatorio (http://www.osservasalute.it/) - una sintesi è anche presente in un editoriale del Sole24ore presso: http://www.fimed.net/images/IMGNewsletterPuntoTecnico/File/osservasalute...

 

(2) http://www.mybestlife.com/depressione/1.5_funzione_depressione.html - o si vedano alcuni scritti di Paul Kraugman, Nobel per l’economia nel 2008

(3) http://www.zadig.it/news2001/med/new-1004-3.htm

(4) Marvin Harris, “Antropologia Culturale” – Ed. Zanichelli – 1990

(5) Luigi Zoja, “Giustizia e Bellezza” – Ed. Bollati Boringhieri – 2007

(6) http://www.kainos.it/numero4/emergenze/bauman-ita.html - http://it.wikipedia.org/wiki/Zygmunt_Bauman

(7) Noam Chomsky, “Il Bene Comune”, Ed. Piemme – 2004

(8) in Serge Latouche, “La scommessa della decrescita” – Ed. Feltrinelli - 2007

 

Oltre ai siti e ai testi sopra indicati si vedano anche:

- Paolo Inghilleri, “La buona vita” - Ed. Guerini e Associati – 2003

- http://www.buddhismo.it/buddismo/principi.htm

- qualunque edizione del dialogo “Gorgia” di Platone

- Luigi Zoja, “La morte del prossimo” – Ed. Einaudi – 2009

- Informazioni sulla psicoterapia cognitivo-comportamentale: http://www.ipsico.org/psicoterapia.htm - http://www.terapiacognitiva.org/articoli/artpcc.htm
e sul metodo costruttivista: http://www.icp-italia.it/scuola/it/costruttivismo.php