Le paure sociali che ci tengono legati alla crescita: come superarle? (Gruppo Milano Città)

1) A cosa serve il lavoro? Quante forme di lavoro conosciamo?

Il lavoro dovrebbe servire alla singola persona per la sua crescita culturale e sociale, per la propria autostima e realizzazione, per sentirsi utili collaborando a preservare e migliorare il mondo in cui viviamo.

A livello della collettività il lavoro dovrebbe servire a produrre beni e servizi per il ben-essere delle persone.

Le forme di lavoro che conosciamo sono: il lavoro salariato, il lavoro autonomo, il lavoro gratuito.

Il lavoratore salariato lavora per conto terzi, riceve un compenso per soddisfare i propri bisogni essenziali e non. Purtroppo sono poche le persone che hanno la possibilità di scegliere lavori salariati utili, creativi, consoni alle proprie capacità e attitudini. La maggior parte si accontenta di ciò che offre il mercato, lavorando spesso in industrie di beni voluttuari, inutili, pericolosi e nocivi per la vita delle persone e dell’ambiente.

Il lavoratore autonomo si differenzia da quello salariato perché possiede i mezzi di produzione.

Il lavoro gratuito è rappresentato dal volontariato, dal “fai da te” e dal lavoro “domestico” .

Proprio al lavoro domestico calza perfettamente la definizione di lavoro come” attività necessaria per vivere”. Pulire e riordinare la casa, lavare, stirare e gestire il guardaroba, acquistare i beni di consumo, cucinare, educare i figli, accudire chi è malato, gestire i rapporti con le istituzioni, provvedere ai pagamenti delle varie bollette, coltivare relazioni con amici e parenti sono alcune delle mansioni quotidiane che si trova ad affrontare chi fa il lavoro “casalingo”. Purtroppo è un lavoro che non viene considerato come tale e non rientra nel Pil.

Tutto questo “lavoro domestico” non va confuso col “mammismo italiano”, per cui le donne si fanno carico di quasi tutto il lavoro familiare e domestico, invece di spingere gli altri (compagno/marito e figli/e in primis) a condividerlo. Imparare a prendersi cura di se stessi e degli altri significa imparare la responsabilità e la tenerezza, l’autonomia ma anche l’interdipendenza, la coscienza dei propri limiti, la reciprocità. E’ un patrimonio di “sapere, saper essere e saper fare” di base, se vogliamo davvero essere umani.

Educare ad avere cura di sé è il lavoro più fondamentale che ci sia, pur se non pagato, perché serve a vivere e a far vivere.

Il fai da te si esercita anche attraverso il sapere, il conoscere. Importanti sono le conoscenze dei temi sanitari, della sana alimentazione, dell’igiene personale, della capacità di leggere precocemente i segnali che ci manda l’organismo. La scuola dovrebbe occuparsi di formare gli individui in questo senso.

Il fai da te potrebbe essere occasione di scambio di prodotti, conoscenze e servizi fra vicini sull’esempio dei mercati del baratto e delle Banche del tempo.

 

2) Tutte le forme di lavoro hanno bisogno di crescita o solo quello salariato?. Rimanendo all’ambito privato, quali forme di lavoro possiamo potenziare per permettere a tutti di soddisfare i propri bisogni senza far crescere i consumi?

Il lavoro salariato e quello autonomo hanno bisogno della crescita, o almeno del mantenimento della produzione, perché devono confrontarsi con due fattori principali:

  • il profitto per le imprese economiche

  • l’utilità per la collettività, per le aziende pubbliche, che hanno come scopo quello di fornire un servizio.

Entrambe le attività devono necessariamente almeno mantenere il proprio fatturato, pena la riduzione dei costi, tra i quali la principale è la mano d’opera, quella che è in genere la prima a farne le spese.

Il lavoro non salariato non deve confrontarsi più di tanto con la concorrenza perché beneficia di mano d’opera gratuita.

Il fai da te e il lavoro domestico sono le forme di lavoro che meglio sanno rispondere a situazioni di stabilità economica, e per questo andrebbero valorizzate e incentivate dalle istituzioni, come ricordato nella risposta precedente..

Anche tutti i servizi relativi alla cura e assistenza di persone svantaggiate, ammalate, anziane, e tutta una serie di servizi di vario tipo per la casa e la famiglia sono in grado di soddisfare i bisogni della comunità senza far crescere i consumi.

 

3) Se valutassimo i settori produttivi in base all'utilità e alla sostenibilità, che percentuale di posti di lavoro stimiamo di dovere eliminare? Si tratterebbe di una perdita secca o altri mestieri e altri settori andrebbero potenziati in un'ottica di sostenibilità?

Attualmente crescita del Prodotto Interno Lordo e dell’occupazione non marciano più di pari passo come una coppia d’innamorati perché le tecnologie della crescita hanno raggiunto una potenza tale da far crescere la produttività più della produzione e quindi da determinare regolarmente una crescita della produzione e una diminuzione (o un aumento non proporzionale) dell’occupazione.

Dal 1960 al 1998 in Italia il prodotto interno lordo a prezzi costanti si è più che triplicato, passando da 423.828 a 1.416.055 miliardi di lire (valori a prezzi 1990), la popolazione è cresciuta da 48.967.000 a 57.040.000 abitanti, con un incremento del 16,5 per cento, ma il numero degli occupati è rimasto costantemente intorno ai 20 milioni (erano 20.330.000 nel 1960 e 20.435.000 nel 1998). Una crescita così rilevante non solo non ha fatto crescere l’occupazione in valori assoluti, ma l’ha fatta diminuire in percentuale, dal 41,5 al 35,8 per cento della popolazione. Si è limitata a ridistribuirla tra i tre settori produttivi, spostandola dapprima dall’agricoltura all’industria e ai servizi, poi, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, anche dall’industria ai servizi.

Per costruire un modello sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale, diverse attività produttive dovrebbero cessare, o meglio ancora – se l’obiettivo è salvaguardare i posti di lavoro – essere riconvertite. Consumando di meno, riparando oggetti, proibendo la pubblicità, chiudendo fabbriche di armi e fabbriche chimiche, e in generale disincentivando tutti quei settori che contribuiscono al peggioramento delle condizioni ambientali, perdiamo molti posti di lavoro, in particolare nell’industria e nel settore dei trasporti/logistica, che potrebbero essere sostituiti in parte dalla green economy.

La green economy vede l’ambiente non più come un luogo di vincoli e divieti, ma come occasione di crescita sostenibile sviluppando la filiera dell’energia rinnovabile e l’efficienza energetica.

Il nuovo business verde sta già generando nuovi posti di lavoro (siamo a 3,5 milioni solo in Europa) e assicurerà una crescita economica reale e sostenibile, prevenendo l’inquinamento e il riscaldamento globale. Si parla però pur sempre di crescita economica che come abbiamo visto dovrà fare i conti con la scarsità di minerali, di acqua, di territorio.

Ma se l’obiettivo non è più una crescita – sostenibile, equa, in grado di mantenere il livello di occupazione allo stato attuale – e quindi spostiamo l’attenzione sulla decrescita, intesa come equa riduzione di produzione e consumo che dia impulso a giustizia sociale, benessere e sostenibilità ecologica, anche il concetto di green economy ci sta stretto. Decrescita significa prevenire le crisi economiche, sociali e ambientali, e ciò non può che essere l’opposto sia di crescita verde, sia di “new green deals”.

Esempi di decrescita possono essere le riduzioni dell’orario di lavoro (una politica utile anche per compensare la perdita di posti lavoro derivante da una “ristrutturazione” in chiave sostenibile delle attività produttive), dell’estrazione di materie prime e dell’uso di veicoli motorizzati; stabilire dei limiti alla rendita; una generale riorganizzazione degli spazi urbani, produzione e vendita di cibo in ambiti locali, riduzione della produzione di oggetti "usa e getta" in favore di prodotti/materiali riutilizzabili o riciclabili.

Da ridimensionare e modificare poi tutte le produzioni di beni e servizi superflui in chiaro contrasto con una visione di sobrietà e di eticità, quali ad esempio palestre e centri benessere con strumentazioni che sprecano energia e che consigliano integratori alimentari inutili se non dannosi, le industrie di suppellettili vari, il mondo della pubblicità, con alle spalle fior di esperti che studiano come indurre nuovi “bisogni” da soddisfare assolutamente pena l’infelicità eterna, al settore che si rivolge all’infanzia (abbigliamento, giochi, cartoleria,….) che mira ad assicurarsi un futuro di fedeli consumatori, alla televisione che purtroppo occupa un posto rilevante nell’educazione moderna.

Sia che si parli di sviluppo sostenibile (o di green economy), sia che si parli di decrescita, diversi sono i settori che possono essere potenziati, generando nuovi posti di lavoro. Di seguito una trattazione per punti.

La crescente concentrazione dei vari settori dell’economia in poche grandi imprese sottrae occupazione: un grande centro commerciale occupa molte meno persone di un numero di piccole negozi che movimenta la stessa mole di merci, e lo stesso vale per i laboratori artigiani rispetto alla produzione industriale (ovviamente solo nel caso di determinati beni), per i piccoli contadini e allevatori rispetto ai grandi produttori industriali e così via. Riorganizzare il sistema produttivo / commerciale su scala locale, per quanto possibile, porterebbe ad una diminuzione dei profitti per la singola (grande) azienda, ma permetterebbe di dare lavoro a più persone, di fatto ridistribuendo il reddito.

Inoltre una politica economica che metta in primo piano l’ambiente in modo realmente efficace e universale può creare un gran numero di posti di lavoro (con risparmio economico): vedi l’esempio del Comune di Capannori (http://www.comune.capannori.lu.it/node/3020) che grazie alla raccolta di rifiuti porta a porta e alla formazione della popolazione ha aumentato l’occupazione diminuendo i costi (legati allo smaltimento in grandi discariche e inceneritori, che crea poca occupazione e molti danni ambientali). Lo stesso si può dire, per esempio, per la produzione decentrata di energie rinnovabili e per la creazione di circuiti di produzione e consumo alimentare locale (la “rilocalizzazione” può essere sostenuta anche con monete locali).

I posti di lavoro si aumentano anche valorizzando e conservando l’ambiente e il paesaggio, proteggendo boschi e territori, promuovendo la riforestazione, potenziando settori come l’agricoltura biologica, la depurazione delle acque, la riparazione dei tubi degli acquedotti. Per creare migliaia di posti di lavoro dovremmo adottare un serio programma di riciclaggio (cfr. di nuovo l'esperienza di Capannori): persone che effettuano la raccolta a domicilio, persone che selezionano il materiale per dividere ciò che è riparabile da ciò che è inutilizzabile, persone che si dedicano alla rottamazione per separare la plastica, i metalli, il legname e ogni altro tipo di materiale, persone che lavorano nelle industrie per il recupero delle materie prime.

Anche l’aggiornamento e la formazione permanente di tutta la popolazione possono garantire una vasta occupazione, in grado tra l’altro di utilizzare le conoscenze di parte della popolazione anziana (il sapere delle donne, soprattutto quelle avanti con gli anni, nella cura delle persone e della casa è un patrimonio inestimabile).

Allo stesso modo la prevenzione sanitaria, la ricerca, l’assistenza alle persone possono creare molti posti di lavoro (nei servizi alla persona gli esseri umani non possono certamente essere sostituiti da macchine).

E’ importante considerare che l’automazione “intelligente” e la reinvenzione del modello economico devono essere utilizzate per la riduzione dell’orario del lavoro per il reddito, che va ridistribuito e graduato anche a seconda dell’età e degli interessi/capacità.

Il resto del tempo andrebbe utilizzato per la formazione, l’autoproduzione (con scambio di prodotti e servizi senza uso di denaro?), la partecipazione politica e il contributo (parzialmente sotto forma di lavoro anziché di tasse) per i servizi di interesse pubblico, gestiti a livello comunale e non privatizzati.

Il governo nazionale e locale può guidare usando in modo intelligente forme di sostegno monetarie e non, la leva fiscale, leggi ecc, per regolamentare l’uso delle risorse dando la priorità a:

  • i beni necessari,

  • l’uso dell’energia,

  • le dimensioni delle aziende,

  • la delocalizzazione,

  • il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei consumatori,

e contrastando alcune distorsioni particolarmente evidenti nell'attuale sistema produttivo, quali:

  • lo sviluppo immobiliare a sostegno delle rendite finanziarie

  • la cementificazione,

  • la remunerazione dei dirigenti,

  • l’accumulo di capitali,

  • la speculazione finanziaria.

 

 

4) Quali richieste immediate avanzare al sindacato,ai partiti,alle istituzioni per favorire lo spostamento produttivo e redistribuire il ridotto ammontare di lavoro salariato?

Anzitutto con dati alla mano possiamo sfatare il mito che la crescita sia necessariamente collegata alla creazione di posti di lavoro e che quindi bloccare la prima comporti automaticamente un sacrificio a livello occupazionale.

Riteniamo che la risposta alla domanda vada svolta su due livelli:

1° livello culturale,

2° livello pratico-esecutivo.

 

1° Livello culturale:

Ogni persona deve avere presente, come un faro abbagliante,la teoria e la prassi del non-nuocere a Nostra Madre Terra, pena la possibile estinzione della nostra specie. Questa è la priorità assoluta, e dunque ogni problema, anche quelli del mondo del lavoro,deve avere questo traguardo.

Diciamo tranquillamente che siamo forse gli ultimi, tra i paesi cosiddetti sviluppati,come sensibilità ambientale, e le ultime elezioni rispettano questa situazione,se osserviamo ad esempio quelle francesi.

Pertanto è ovvio che anche le istituzioni non abbiano questa sensibilità e naturalmente neanche i loro addetti.

Quindi, il compito culturale immane è che le istituzioni ed i sindacati acquisiscano tale sensibilità per trasferirla nei loro ambiti, magari utilizzando anche la costituenda carta dei diritti di Nostra Madre Terra, gli indicatori di ben-essere alternativi al PIL, l'impronta ecologica personale.

Un ruolo fondamentale viene ricoperto dalla scuola, a cui chiediamo di inserire nei programmi educazione civica, alla cittadinanza attiva e alla partecipazione, educazione alimentare, educazione ambientale, domestica, alla salute, istruzione all’autoproduzione (agricoltura, abiti, riparazioni idrauliche, elettriche, meccaniche –la bici!- più semplici).

 

2° Veniamo al cosiddetto lato"pratico":

Al sindacato chiediamo di mettere nelle contrattazioni: la diminuzione dell’orario di lavoro con un forte incremento del part time (il lavoro necessario deve essere suddiviso tra tutti i potenziali lavoratori); abolizione dello straordinario, salvo per situazioni d’emergenza; il diritto al reddito destinato non solo ai soggetti “svantaggiati” o agli ”inabili al lavoro”, ma a tutti coloro (studenti universitari, lavoratrici, lavoratori precari) che subiscono la precarizzazione delle proprie condizioni di lavoro e di vita; se non c'è una chiusura o una delocalizzazione, i contratti di solidarietà ,invece dei licenziamenti, devono diventare la norma per legge.

La riconversione della produzione, in particolare delle industrie belliche e voluttuarie.

Osteggiare e impedire la costruzione di centrali nucleari, inceneritori e termovalorizzatori che danno lavoro a un esiguo numero di persone e sono pericolosi e nocivi per la nostra salute e investendo invece, anche in termini di nuovi posti di lavoro, sul territorio, valorizzando e conservando l’ambiente e il paesaggio (industria turistica), potenziando settori come l’agricoltura biologica, la gestione degli acquedotti, adottando un serio programma di riciclaggio con persone che effettuano la raccolta a domicilio, che selezionano il materiale per dividere ciò che è riparabile e ancora utilizzabile da ciò che non lo è..

Efficienza e risparmio energetico nel settore industriale, nell’edilizia (costruendo case ad alta efficienza energetica e coibentando quelle già esistenti), nei veicoli ( incentivando la produzione di mezzi pubblici a basse emissioni e biciclette), nei settori dell’aviazione e marittimo.

Incrementare e privilegiare l’energia prodotta da fonti rinnovabili, sia per le infrastrutture e impianti pubblici, sia agevolando gli investimenti dei privati cittadini, privilegiare le società che offrono energia prodotta da fonti rinnovabili.

Decentrare il più possibile la produzione energetica preferendo mini centrali di energia “pulita” gestite da comunità, cooperative, piccole industrie, sia per ridurre gli sprechi e le dispersioni nelle trasmissione dell’energia, sia per democratizzarne la gestione.

Riduzione drastica del consumo di energia: rimodernare la rete di distribuzione dell’illuminazione, favorendo la progettazione delle cosiddette reti intelligenti e la conversione dell’illuminazione pubblica con lampade a led, diminuire l’illuminazione notturna delle città e delle strade, spegnere le insegne luminose di notte.

Promuovere le aziende produttrici di beni durevoli, riparabili, riciclabili.

Incentivare i servizi alla persona e i servizi pubblici in generale (anche con la formula del pagamento tasse in natura): per es. educazione permanente ( anche su autoproduzione, servizi pubblici fiscali e partecipazione cittadinanza attiva), sistemi di scambio non monetari e con monete locali, assistenza sociale e sanitaria (soprattutto preventiva), potenziamento dei mezzi pubblici azzerando quasi il costo del biglietto, che dovrebbe essere compensato da un conseguente elevatissimo aumento degli utenti.

Non tutto è realizzabile in tempi stretti; ma sembra impossibile sezionare un problema che necessita di una visione olistica e che ha una tempistica non uniforme.

E' anche evidente che quanto su esposto necessita di ulteriori approfondimenti sia "umani" sia da parte dei tecnici dei vari settori evidenziati,ben consapevoli delle talora gravi difficoltà attuative, ma se ci arrendiamo davanti alle difficoltà cerchiamo non la rotta ma come "suicidarci".

Ai politici,e tali dobbiamo considerarci, spetta indicare le linee fondamentali, le "idee forza", la rotta opportuna, per creare un futuro eco-etico-socio-sostenibile

 

5) L'economia pubblica va concepita unicamente come un comparto che spende o che produce anche ricchezza? La sua capacità di produrre ricchezza su cosa si fonda?

Molto dipende da che cosa intendiamo per ricchezza.

Se per ricchezza intendiamo ricchezza monetaria, non dobbiamo dimenticare che lo scopo dell'economia statale è quello di conseguire un'utilità pubblica e solo in seconda istanza quello di ottenere anche un profitto.

Analizzando la situazione attuale, in questo senso l’economia pubblica produce ricchezza, ma in una forma distorta e assolutamente deprecabile. Pensiamo all’ esternalizzazione delle funzioni pubbliche, dalla sanità ai servizi alla persona, alle infrastrutture ed ai servizi per la mobilità (ferrovie, autostrade, …), tanto per citare gli esempi più evidenti.

Si sa che un'azienda che ha uno scopo di pubblica utilità ma è gestita con criteri da impresa privata tenderà a soddisfare le aspettative dei soci, che sono quelle di ottenere il profitto più alto possibile.

Se con ricchezza si intende invece produzione di beni e servizi, e ancor più se si intende benessere in senso lato, a maggior ragione l’economia pubblica deve avere un ruolo centrale.

Parecchi comparti dell'economia pubblica (ad esempio i servizi di fornitura di energia, di raccolta, riciclaggio, smaltimento dei rifiuti, ecc.) possono generare ricchezza, sia in termini di profitti sia in termini di posti lavoro.

Si pone poi il problema della gestione di questi profitti, del loro utilizzo.

Lo Stato dovrebbe farsi garante di una redistribuzione delle risorse per assicurare a tutti la soddisfazione dei bisogni fondamentali, o in maniera indiretta, usando la leva fiscale e mantenendo il controllo dei servizi fondamentali, o in maniera diretta, ad esempio acquistando prodotti locali da piccoli produttori e assegnandoli alle famiglie come parte di un “reddito di esistenza” dato in cambio di servizi socialmente utili.

In generale crediamo che un'equa redistribuzione finanziaria delle entrate da parte dello Stato e degli Enti locali non possa essere considerata semplicemente come spesa, perché se è finalizzata a garantire i servizi necessari alla vita dei cittadini, si configura anch'essa come un elemento generatore di benessere (o di ricchezza, intesa in senso immateriale).

Fondamentale è che la gestione dei servizi (assistenza sanitaria, istruzione, servizi idrici, gestione dei rifiuti,…) sia pubblica e partecipata.

A questo proposito occorrerebbe pensare ad un nuovo tipo di impresa che avesse come scopo la bontà del servizio e non il profitto. Un tale tipo di azienda non può essere concepito nè come azienda a proprietà publica, nè come azienda a proprietà privata, ci vorrebbe una terza via che potrebbe essere quella di un'azienda a proprietà "popolare".

Questo termine intenderebbe che ogni utente dovrebbe anche diventare socio dell'azienda pagando una piccola quota che lo renderebbe non solo utilizzatore ma anche proprietario e responsabile, per la sua piccola parte, delle scelte aziendali alle quali

parteciperebbe, come azionista attivo, alla nomina o elezione della compagine che dovrebbe guidare l'amministrazione dell'azienda stessa.

Questa forma di conduzione sottrarrebbe all'influenza dei politici il potere di decidere a chi affidare la conduzione aziendale eliminando parte dei clientelismi che minano la credibilità delle nostre istituzioni. Ai politici spetterà solamente il compito di stabilire lo Statuto e l'Atto Costitutivo che regoleranno la vita di questo nuovo tipo di azienda ma verrà sottratta loro la facoltà di scelta degli attori che la amministreranno, che verranno scelti dagli azionisti che a loro volta avranno facoltà di un solo voto a testa e quindi sarà una vera azienda a capitale diffuso tra il pubblico degli utenti stessi che potranno cedere insieme all'utenza anche la loro quota di capitale in caso scegliessero di passare ad altra società di gestione.

La ricchezza prodotta da questo tipo di azienda sarà perciò configurabile nella migliore qualità di servizio possibile ed in una garanzia di gestione oculata e non influenzata da interessi personali nè trasversali per accontentare questo o quel partito. Ogni amministratore rimarrà in carica per la durata del mandato assegnatogli e potrà essere rieletto se ritenuto meritevole.

La capacità di produrre ricchezza del settore pubblico si deve fondare proprio sulla facoltà della politica di progettare un modello economico e sociale e dunque di scegliere le priorità produttive, compito quanto mai fondamentale oggi, visto che la progressiva riduzione delle risorse ci pone davanti alla scelta se competere fino alla morte (dei più deboli prima e poi di tutti) o cooperare per salvare il salvabile, rispettando i diritti di tutti.

 

6) Per la parte che produce ricchezza, si possono immaginare forme di contribuzione collettiva che non risentono dell’ andamento dell’economia generale?

Se con “ricchezza” si intende la ricchezza in denaro, è impossibile svincolare la contribuzione collettiva dall’andamento dell’economia generale, poiché imposte e tasse sono direttamente proporzionali al volume dell’economia prodotta dalla società.

Intesa in questo senso inoltre la ricchezza viene prodotta solo da una parte della popolazione, e si ritrova distribuita in modo diseguale (chi fa lavoro gratuito- lavoro casalingo, volontariato- non produce ricchezza così concepita e non viene riconosciuto né remunerato), se invece allarghiamo il termine di “ricchezza” alle relazioni che si stabiliscono nella comunità, ai servizi e ai beni rivolti al soddisfacimento dei bisogni di tutta la popolazione, tutti, chi più chi meno, risultano coinvolti nella produzione di tale ricchezza e ne possono beneficiare.

Se dobbiamo pensare a forme di contribuzione che non contemplino l’uso del denaro, dobbiamo rifarci all’idea esposta da Gesualdi ne” l’Altra via” (e prima in “Dalla parte sbagliata del mondo”) in cui ogni singolo individuo offre alla comunità ore di lavoro gratuito secondo le sue competenze e inclinazioni in cambio di beni e servizi gratuiti che gli permettano una vita dignitosa. Ritorna con urgenza a questo proposito la necessità di un’istruzione pubblica completa e permanente, che permetta ad ognuno di acquisire capacità manuali e conoscenze scientifiche che gli permettano di svolgere anche più di una mansione con competenza e senso di responsabilità.

In questo sistema di scambio lavoro-servizi verrebbe finalmente riconosciuto come si merita il lavoro che viene svolto fra le mura domestiche, in genere dalle donne, e valutato alla pari delle altre occupazioni.

Distribuendo in questo modo il lavoro (non tutti i tipi di lavoro, alcune attività ovviamente possono essere svolte solo da professionisti, vedi il medico o l’ingegnere) non sarebbe necessario lavorare a tempo pieno, e rimarrebbe tempo da dedicare a se stessi, alle relazioni sociali, al fai da te, volendo ad attività di mercato.

Comunque, perché questo nuovo modo di intendere la contribuzione fiscale possa far breccia è necessario superare l’individualismo in cui ci siamo rinchiusi e risvegliare il desiderio di partecipazione e cooperazione alla vita di comunità. Visto come stanno le cose, non è un’impresa facile, andrebbe supportata in tutti i modi dalle istituzioni, in particolare dalla scuola, e dalle realtà locali.

Il concetto di partecipazione sociale dovrebbe far parte degli insegnamenti di base che i genitori impartiscono ai loro figli, a garanzia di un futuro di cittadini responsabili e consapevoli dei propri diritti e doveri.